LA PASTA CON LE SARDE
Nella penombra della stanza, dalla porta, vedevo la testa e uno scorcio del profilo della nonna Anna, bianco, affilato, immobile. Il prete era venuto la mattina a darle l’estrema unzione. Non si sentivano gemiti né lamenti, neanche il rumore del respiro. Che fosse già morta? Entrai in punta di piedi e mi misi a fianco del letto. Aveva gli occhi aperti e li girava con sguardo stupito e curioso per tutta la stanza. Quando mi vide mi chiese con un fil di voce:
– Tu chi sei, Anna Maria o Giovanna?
– Anna Maria, nonna.
Mi fece un gesto con la mano battendola sul bordo del letto.
Accostai una sedia e mi sedetti accanto a lei. Le presi la mano e gliela carezzai:
– Come stai?
– Bene – sussurrò con tono ovvio, come se le avessi fatto una strana domanda.
– Oggi non hai dolori?
Sollevò il mento in segno negativo.
– Antonio dov’è? – chiese.
– E’ uscito un momento, ora torna.
Le dicevo sempre così. Antonio, mio cugino, non abitava più con noi da una decina d’anni e non si faceva vivo molto spesso. Ma questa volta lo aspettavamo davvero da un momento all’altro.
La nonna alzò le sopracciglia ammirata e mi sussurrò:
– E’un bambino bellissimo… pensa, a quattro anni parla tedesco perfettamente… ha la freulin tedesca… Lo conosci tu Antonio?
– Certo nonna, è mio cugino.
– Ma tu chi sei, la sorella di Gino?
– Sono la figlia di Gino. Gino è tuo figlio e io sono tua nipote, come Giovanna.
– Ma tu non devi studiare per domani?
– Sì, dopo vado, non ti preoccupare.
– E Liana pure è mia figlia?
– No, è mia mamma, la moglie di Gino.
– E Antonio come ti viene?
– Cugino. E’ figlio di quell’altro Antonio che era tuo figlio più grande, ti ricordi?
– E ora dov’è?
– E’ morto tanti anni fa e tu e il nonno avete tenuto con voi Antonio piccolo, che adesso è grande.
La nonna annuiva:
– Che è bello stu figghiuzzo mio, intelligente! E’ già regista così giovane… Adesso è a teatro?
– Sì, nonna.
Annuì di nuovo, soddisfatta:
– Mette in scena la Turandot. La conosci tu la Turandot?
– Come no, è una delle mie opere preferite!
Non avrebbe mai potuto metterla in scena. Sapevo che era proprio andando alla prima della Turandot, con mio nonno, a Torino, che lo zio Antonio, primogenito idolatrato, già avviato ad una brillante carriera artistica, si era preso un acquazzone tremendo e quindi la polmonite che l’aveva portato via a soli ventidue anni, già padre di un bambino di pochi mesi, che i nonni avrebbero cresciuto e chiamato sempre col nome del figlio.
La nonna stette un po’in silenzio di nuovo guardandosi intorno. Aveva uno sguardo furbetto, da bambina piccola, e un mezzo sorriso le increspava le labbra.
Poi i suoi occhi tornarono su di me:
– La conosci tu la pasta con le sarde?
– Non l’ho mai mangiata, ma tu ce ne hai parlato tanto. E’ buona vero?
Lei fece una mezza rotazione con la mano come a dire: altroché!
– Abbiamo sempre mangiato la pasta coi broccoli, la pasta con le acciughe e la mollica di pane…
-La pasta con le melenzane?
-Quella sì, tante volte, ma la pasta con le sarde mai. Perché non l’abbiamo mai fatta?
Sapevo benissimo perché.
-Perché qui non viene buona, perché ci vuole…
Mi fece il gesto di avvicinarmi di più e accostai l’orecchio alla sua bocca.
– Ci vuole il finocchietto selvatico, quello di montagna – mi sussurrò
– Il finocchio normale non va bene? –
– E bah! – protestò come se avessi detto un’enormità per farla arrabbiare.
– Scherzavo, dai!
– Perché qui non c’è il finocchietto selvatico, ah?
– Eh no, mi sa che non c’è – convenni.
Scosse leggermente la testa e abbassò le palpebre come a dire: vedi?
– Nonna, me lo dici come si fa la pasta con le sarde?
Cercavo di gustarmi quel momento incredibile. Tutto mio. La nonna era ormai per me solo un corpo sofferente, scavato da spaventosi decubiti, che ci svegliava la notte gridando e lamentandosi e tutti in famiglia, comprese noi ragazzine, ci alzavamo a turno per aiutare l’infermiera a girarla nel letto, a medicarla, a cercare di tranquillizzarla con qualche carezza. Diceva solo cose confuse, con lo sguardo appannato e prima ancora, negli ultimi anni, la ricordavo in poltrona tutto il giorno, sempre bisognosa di assistenza e con la mente perduta in fantasie deliranti. Immaginava che la venissero a trovare una serie di personaggi. Primo fra tutti l’adorato nipote Antonio, che si presentava sempre con le sembianze di un bambino dai riccioli d’oro. Poi, negli ultimi tempi, quando sragionava ma riusciva ancora a parlare, si era aggiunta la frequentazione assidua di un certo Samuele, nome ricavato sicuramente dall’assonanza col gioielliere Fanuele, da cui molto probabilmente si era servita in gioventù, che la corteggiava portandole in dono preziosi monili. Spesso e volentieri univa i due in un unico visitatore:
“ Oggi è venuto Samuele a trovarmi” rivelava sottovoce con aria complice a chiunque le si avvicinasse “mi ha portato una collana di perle con una fibbia di brillanti… lo conosci tu Samuele? E’ un giovane bellissimo, con una testa di riccioli biondi…”
Poi le visite erano cessate, gli occhi della nonna si erano fatti vacui e velati, la sofferenza fisica l’aveva spinta in chissà quale mondo da cui ci inviava solo messaggi di dolore…
– Allora nonna, dicevi, ci vuole il finocchietto selvatico…
– Quello che c’è ad Altopiano… lo conosci tu Altopiano?
– Il posto dei bambini di Palermo!
(Nonna, ci racconti la storia dei bambini di Palermo, nonna, ci racconti la storia dei bambini di Palermo, nonna, ci racconti la storia dei bambini di Palermo? E lei per farci mangiare raccontava di quando saremmo andati a conoscere i nostri cuginetti, che ci avrebbero portato nella casa in collina di Altopiano, coi cavalli e le caprette, e che io mi sarei fidanzata con Emanuele, che aveva la mia età, e Giovanna con Francesco, che Peppino era cicciotello e mangiava mangiava e un giorno si sentì un botto e che è successo? E’ scoppiato Peppino…e noi ridevamo ridevamo…ancora nonna! E poi eravamo andati con la nave, avevo sei anni, e noi bambini ci portavano in giro nei portabagagli di due giardinette, tutti ammucchiati, e facevamo la gara di puzze e io ed Emanuele ci eravamo fidanzati e anche dati un bacio sulle labbra, così ero tornata a casa col morbillo.)
La penombra era ora più dolce e ammorbidiva i lineamenti della nonna. Le posai il dorso della mano su una una guancia e la sentii fresca e asciutta, io che la ricordavo col viso sempre un po’ sudato, che spesso evitavo di baciare…
– Allora, la pasta con le sarde?
La nonna fu pronta a riprendere il filo:
– Perciò: devi lessare il finocchietto nell’acqua per venti minuti… l’acqua si tiene per cuocere la pasta, bada che devono essere bucatini… Poi devi prendere delle belle sarde fresche, le apri e ci levi la testa e la lisca. Fai soffriggere la cipolla a poco a poco col finocchietto tritato, la metà delle sarde…
Parlava lentamente, staccando le parole e con una vocina sottile sottile. Si fermò per riposarsi e riprese muovendo un po’ la testa come se ripassasse tra sé una lezione:
– Ci metti l’uva passolina e i pinoli… poi che ci vuole più… ah si, una o due acciughe… le metti in un piattino sopra un pentolino che bolle e le fai squagliare… poi ci manca una cosa, aspetta, il… il… il comesichiama…
– Lo zafferano! – La imbeccai trionfante. Gran parte degli ingredienti erano gli stessi della pasta coi broccoli che tante volte le avevo visto preparare. Mi guardò con approvazione ed io mi sentii fiera della mia sicilianità.
– Deve farsi tutta una crema, e poi ci condisci i bucatini.
– E poi si mangia!
Alzò il mento :
– Ci manca il più buono: ci vuole sopra il pangrattato, il resto delle sarde e le mandorle tritate e metti un poco in forno.
– E ora si mangia però! – le sorrisi.
La nonna alzò le sopracciglia, abbassò le palpebre e fece su e giù con la testa, lentamente, assumendo un’aria accorata:
– Maria Maria, che è buona! Quant’è che non la mangio! – Poi, guardandomi di nuovo, mi tirò un poco per la mano:
– Mi raccomando il finocchietto: ci vuole quello selvatico. Domani andiamo ad Altopiano e lo prendiamo.
– Va bene, andiamo domani.
– E così facciamo la pasta con le sarde.
– Facciamo la pasta con le sarde – confermai e le baciai la mano prima di poggiarla di nuovo sul letto assieme alla mia. Rimasi un po’ lì seduta, in silenzio, in attesa che la mamma o l’infermiera, che si erano appartate esauste per un breve riposo, tornassero a darmi il cambio. Mi sentivo stranamente appagata. La nonna aveva chiuso gli occhi e respirava tranquilla. Senza svegliarsi entrò in coma vigile e non li riaprì più. Neanche con l’adorato Antonio, neanche con mia sorella Giovanna, che, tra noi due, era stata sempre la sua cocca. Quel momento l’aveva riservato proprio a me.