Archivio | giugno, 2005
24 Giu

 

SELENE E LE PENE DEL TENENTE SENESE

(Storia omovocalica di un infelice idillio)

selene Triana

 

Selene veste sete leggere,
vede le stelle
nelle belle sere
del breve settembre.
Mette crespelle
pere, mele e mente fresche
nelle ceste
(e speck, se crede)
per le merende nel verde dell’erbe.
Beve l’essenze d’Ebe.
Prende betèl .
Legge le lettere del tenente,
le melense lettere
del tenente senese..

Selene tesse tele,
le vede vele greche,
Prende del refe,
Mette dentelle
nelle tele,
le rende tende,
esce e le vende
per sette cents.
Mentre le stende, sente:
– Me le cede per tre cents?
Selene vede delle stellette,
le crede essere beffe
del recente betèl.
Vere sebben:
-Tenente!
-Selene!
Bel settembre.

Sede del tenente: l’Eden.
Nelle tenebre delle tende:
-Che pelle Selene!
mette creme?
Che belveder!
Che tette! E che sedere!
– Tenente, che bel pene!
Selene geme
e sente fremere
le vene del tenente,
mentre veemente
le preme le fesse,
le belle tette erette…
– Selene!
– Tenente!

-…Ehm Ehm, Tenente!
– Che c’è sergente!
– C’è gente!

Repente recede,
pene pendente.

Selene, nelle tenebre delle tende,
veste delle belle trecce
le scese tette meste,
celermente.
Sergente fetente!
Mente, che serpe, prendesse le zecche!

Sede recente del tenente:
Nelle strette celle
delle segrete etnee.
Vendette del sergente
per beghe pregresse?
(Dente per dente?
Mene per emergere?)

Selene tesse le tende,
esce, le vende,
per sette cents.
Spende tre cents
per le bende del tenente
( che crede degente
per fendente nel rene)
Depresse le cene:
mezze mele,
del pesce fette secche.
Legge bestsellers.
Leggerebbe le lettere
del tenente senese,
se le tenesse:
le serberebbe nelle teche
delle credenze settecentesche.
Le crede perse,
mentre le prese
l’ex sergente
(emerse, verme!)

Selene è fedele.
Né lettere né presente
del tenente senese…
Breve è settembre.

Le fredde sere del mese
che mette neve nelle vette!
Le sere delle megere!
Selene veste tele grezze, nere,
sente crepe nel ventre,
scese le tette.
Vede le streghe, vele nelle tenebre,
ne prende le essenze per spegnere
sete, sete del tenente!
Che serve essere belle?
Che serve esser fedele?
Che pene!
Cede Selene e beve l’etére.

Nelle fredde celle etnee,
nel rem del tenente
c’è Selene sempre presente!
Pelle, tette e sedere,
le sclere del bel celeste!
Nel rem
sente crescere
le bellezze del celebre pene
(vedere per credere)
Selene! Selene!

Ebbene, nel breve?
l’essenze?
Selene e le pene segrete;
le segrete seghe del tenente.

Il tempo discontinuo e le tuberose

21 Giu

 

 

   modigliani-bambina celeste                

 

A sei, sette anni, il tempo è discontinuo. Perché un futuro atteso è come un quadro lontano, da cui ci separa un fossato che ci appare insuperabile. Si può solo credere, per pura fede, che quel momento arriverà. Ma è contrario all’esperienza, perché il tempo non passa mai e sei mesi, come sei giorni ed anche sei ore, a volte sono un tempo infinito, impercorribile.

E allora Anna si dice, mentre in un giorno d’inverno si annoia dietro il vetro della sua camera di Roma, primo pomeriggio, adulti a riposare e bambini zitti: eppure ci sarà una prossima estate a San Remo ed io sarò di nuovo nel giardino della villa dei nonni, sentirò l’odore delle tuberose lungo la strada del Solaro e il cigolio del cancello dei Verruggio, di fronte al nostro, la mattina presto, e salirò nella soffitta a giocare coi pupi siciliani a grandezza naturale abbandonati in un angolo e a odorare la carta dei libri vecchi vecchi, quelli che erano per bambini quando erano bambini i grandi, e verrà il momento che sentirò l’odore delle alghe, sulla spiaggia… No, ecco, così non funziona. Anna deve individuare qualcosa di più specifico: ad esempio l’arrivo a San Remo, con la nonna, la sua sorellina e la cameriera, piene di bagagli per una villeggiatura che durerà tre o quattro mesi – una vita – e poi il tassì, che alla curva stretta del Solaro dovrà fare marcia indietro per riuscire a girare e questo vuol dire che ci sono quasi, e presto – ma anche ora il tempo è discontinuo e qui gli ultimi minuti si dilatano in una bolla immobile – comparirà la villa tutta coperta di bouganville e la zia Teresa col fazzoletto in testa e Mino Franco e Floriana, calzoncini e canottiera e piedi nudi, che avranno appena finito di irrigare i campi sotto la villa, ad aspettarle sulla strada sorridenti e festosi.

No, neanche questo, serve un momento ancora più preciso, quasi una fotografia, per poter avere un riferimento : ad esempio lei e Floriana che fanno il giro della strada Solaro subito dopo il tramonto, per andare comprare il latte alla stalla, vicino al campo ippico, e, ancora più a fuoco: proprio il momento in cui, alla prima curva, sotto di loro si apre il panorama delle terrazze coltivate a tuberose e giù in fondo quel mare /cielo dolce, senza più orizzonte e piccole vele bianche a solcarlo e Anna si affaccia al parapetto – perché questo Anna, sei o sette anni, lo fa sempre – e sente uno struggimento e non lo sa definire.

– Che bello neh! – fa la Floriana, che ha sei anni più di lei, ma se la porta sempre dietro in questa commissione quotidiana. E intanto scorrono lontane, lungo le terrazze, figure di ragazzi e uomini a torso nudo, abbronzato, i pantaloni arrotolati, che tornano dai campi con fasci di fiori dai gambi lunghi sulle spalle e quando Gino Verruggio le incrocerà, proprio in quel punto sulla strada, lasciando quel ‘Boona’* strascicato di saluto, il profumo dei fiori sarà così forte che Anna ne sarà stordita.
In quel preciso momento, si dice Anna , in quel preciso momento dovrò ricordarmi di ora, di me che sono qui alla finestra della mia stanza di Roma a chiedermi come mai potrà passare tutto il tempo necessario perché quel momento arrivi. E stabilisce una posizione precisa nella sua stanza, magari prende un quaderno in mano, perché la fotografia sia più nitida, e legge: classe seconda elementare. Mi dovrò ricordare, allora, di me che leggo le parole classe seconda elementare su una copertina azzurra. E così Anna si dà degli
appuntamenti col tempo, tratti di un tempo discontinuo, sperando di afferrarne il mistero.

Perché la sua fede vacilla e forse il tempo non passerà e quel momento non arriverà mai.
Puntualmente arriva l’estate e con l’estate San Remo, in uno scorrere a scatti del tempo, segmentato in frazioni sempre più brevi. Anna entra nel salone della villa e sente subito l’odore di muffa e cera della casa vecchia e le si allarga il cuore, poi guarda il mandarino cinese appeso al muro, proprio nell’ingresso, che le fa tanta paura perché ha gli occhi che ti seguono ovunque tu vada, e poi arriva la zia Teresa con la torta di zucchine preparata come sempre per il giorno dell’arrivo e presto tutto diventa dolcemente quotidiano anche l’odore del DDT spruzzato la sera con la macchinetta nelle stanze da letto, e Anna dimentica il suo appuntamento col tempo e con l’istante di Roma, perché dovrebbe guardare a ritroso. E non fa ammenda per aver mancato di fede. La sabbia sotto ai piedi e l’odore forte del mare, il pane e pomodoro e basilico, ‘pane e pumata’ dopo il bagno, i pomeriggi pigri in giardino, mentre i grandi riposano, a giocare e leccarsi il sale dalla pelle, che odora di sole e di buono e poi giù nei campi a seguire in mezzo alle zolle allagate Floriana che regge la manica ai fratelli, le merende di pane e fichi. E alla sera, prima di cena, nell’ora del crepuscolo, Floriana va a chiamare Anna per andare a comprare il latte.
La passeggiata più bella, l’aria dolce e il mare che ti aspetta ad ogni curva. Ed ecco Anna che si affaccia al muretto e Floriana dice : -Che bello neh? – e si incantano a guardare il celeste delicato e piatto su cui scendono i fianchi delle colline. E teorie di uomini e ragazzi a torso nudo e abbronzati scorrono sulle terrazze coltivate a tuberose tornando a casa con fasci di fiori dai lunghi gambi sulle spalle.
-Boona – saluta Gino Verruggio e il profumo è così intenso che Anna ne è stordita. Poi riprendono il cammino e scherzano e chiacchierano ed Anna ha dimenticato l’appuntamento con la Anna dell’altro tempo, quell’altra lei di Roma, immobile alla finestra con quel quaderno in mano con su scritto Seconda Elmentare. Un piccolo tradimento.
Ma l’estate è dolce e sa perdonare. 

                                                                                            

* sta per ‘Buonasera’.


anni '50 (guardando una foto di Cartier Bresson)

18 Giu

 Bresson vecchio

 

Diversi anni fa, ad una mostra di Cartier Bresson sugli anni ’50, ho visto una foto che, più delle altre, mi ha suscitato un’acuta nostalgia: in un bianco e nero un po’ sfumato, come dalla nebbia dell’inverno, due bambine per mano fissano l’obbiettivo – una tiene un pentolino –in un angolo di strada con l’insegna di una latteria, i cappottini corti e le gambe nude, con quell’aria da poverelle felici che avevamo un po’ tutti noi bambini degli anni ’50. Si indovinano il freddo, le guance arrossate, le gambe un po’ violacee, s’indovina l’interno della latteria col suo odore di latte e i vasi di vetro con i pescetti ed i lacci di liquerizia.
E’ un’immagine dal potere evocativo così forte, nella sua estrema semplicità, che tutt’ora me la porto dentro come sintesi magica di un’intera zona della memoria, anch’essa in bianco e nero, quella della mia infanzia invernale, l’infanzia di Roma. Quella di un tempo in cui mi sembra, molto semplicemente, che tutti fossimo più poveri e più felici.

In cui io e la mia sorellina andavamo a comprare il latte e con il resto compravamo due gomme americane da cinque lire.
In cui scendevamo tutti i giorni a giocare per strada con una banda di amichetti.
In cui cadevamo correndo e ci sbucciavamo le ginocchia nude, sempre piene di croste e cicatrici.
In cui veniva l’omino coll’organetto a suonare in via Anglona, ancora non asfaltata, e noi gli tiravamo i soldini dal balcone, mentre altri bambini, nella strada, correvano a raccoglierli e glieli porgevano .
In cui l’arrotino passava per le case ad affilare i coltelli annunciandosi a voce spiegata.
In cui ognuno di noi aveva almeno un fratello o una sorella e molti bambini nel palazzo con cui giocare tutti i pomeriggi.
In cui eravamo lasciati un po’ a noi stessi e ci era concesso un nostro tempo nel quale, ogni tanto, potevamo anche annoiarci.
In cui c’era un ombrellaio o un impagliatore di sedie in molti angoli di strada.
In cui si ricevevano giochi solo a Natale o per il compleanno.
In cui il tempo alle volte sembrava fermarsi e non passare mai.
In cui la mamma ci tagliava via una lunetta di pelle dalla punta delle scarpe quando queste diventavano troppo corte e ci rivoltava i vestiti per farli tornare come nuovi.
In cui passavo le ore a guardare le vecchie foto di famiglia o a leggere sdraiata a pancia in sotto sul tappeto della nostra cameretta.
In cui la sera si ascoltava la commedia alla radio e poi arrivò la televisione in bianco e nero con un solo canale e poche ore di trasmissione a cui tutti assistevamo riuniti.
In cui papà ci costruiva un telefono con due barattoli di latta ed uno spago.
In cui avevamo la Topolino e papà e mamma ci andavano a San Remo diverse volte all’anno.
In cui la nonna Anna suonava le scale al pianoforte.
In cui facevo la novena di Natale, uscendo la mattina presto per andare a messa con gli altri bambini prima della scuola, e nel freddo e nel buio facevo il fumo colla bocca.
In cui, nel sonno, sentivamo papà e mamma rimboccarci le coperte.
In cui, quando ci ammalavamo, restavamo a letto ancora due giorni senza febbre e i grandi ci tenevano compagnia leggendoci delle storie o ritagliando bamboline di carta. I
n cui la mamma ci metteva l’olio caldo nelle orecchie e l’Olio Balsamina sulla schiena, e poi, sopra, una pezza di lana.
In cui io e Giovanna, la mattina appena sveglie, facevamo il gioco di indovinare le canzoni battendone il ritmo con le nocche sulle testate dei lettini gemelli.
In cui la nonna ci portava al cinema dove tutti fumavano e i film erano in bianco e nero e c’era il cinegiornale che non vedevo l’ora che finisse.
In cui nel dormiveglia del primo mattino, mi raggiungeva da profondità lontane l’invocazione dolente e modulata dello straccivendolo, lo ‘stracciarolo’: “stracciaroooo!” con quella o finale prolungata che si perdeva nelle nebbie del sogno.
In cui, fuori dalla scuola, c’era il carretto che vendeva ‘fusaie’, olive sciape e bruscolini.
In cui c’erano gli astucci di legno con dentro il nettapenne e nei banchi i calamai, che la bidella riempiva d’inchiostro versandolo da un grosso boccione.
In cui ogni tanto, nella notte, il fischio lontano di un treno mi frullava nella bocca dello stomaco un guizzo di nostalgia e di ansia anticipatrice dell’estate a San Remo, che era lontana un mondo, ma che pure sarebbe arrivata.


Bresson bambini 1Cartier Bresson

 

 

14 Giu

 

 

Ehm… quello che segue sarebbe per bambini  (tipo Petardolina, Quelluccia, Bruciatino, Cadreghina  e  tutti). Vi ho fatto anche il disegnino.

14 Giu

                                      Allergie

 

Mago parolone

 

Il Mago Parolone
mischiava le parole
e dentro un pentolone
ne faceva di nuove.
Durante una magia
forse per uno sbaglio
gli prese un’allergia:
non sopportava l’aglio!
Dovette eliminarlo
persino dal
mAGLIOne
non fece più uno sbAGLIO
il Mago Parolone;
non prese più un abbAGLIO,
e proprio sul più bello
proibì di fare un
rAGLIO
persino all’asinello.

Si ritrovò dei pezzi,
avanzi di parole,
mezze sillabe, ed anche
delle lettere sole…
insomma, dei ritagli
per farci una magia,
ma pure dai ritAGLI
gli AGLI li buttò via.
Restò con rit…che farne?
Lo mise dentro a un
forno,
col resto di una
EFFE
ne ricavò ‘ ritorno’.
L’EFFE la conservò,
con cura in un cassetto
perché è una bella lettera
fa certo un grande
EFFEtto
Senti:
eFFicace, eFFimero
aFFetto, aFFari, buFFo
aFFusolato, raFFica,
caFFè, giraFFa, tuFFo;

ma, poiché gli piaceva
di più come iniziale
al Mago Parolone
venne subito Fame:
si cucinò dei Funghi
mangiò Frutta e Formaggio
incontrò due Folletti
sotto l’ombra di un Faggio;
raccolse
Fiorellini
rincorse le Farfalle
poi cercò un Falegname
sulle Pagine Gialle
E poi Fantasticava
di metter su Famiglia
di aver Fratelli, moglie,
dei Figli ed una Figlia
e a questa Filastrocca
di dare un bel Finale,
qualcosa di Fantastico
qualcosa di speciale!
Mentre Fantasticava
gli passò l’allergia
rimise a posto l’AGLIO
facendo una magia.
Il Mago Parolone
era così contento!
Si rimise il maglione
e non stava più attento:
così si fece un taglio
ricominciò a sbagliare
a prendere un abbaglio
e l’asino a ragliare.
Recuperò i ritagli,
le letterine sole
e poi nel pentolone
formò nuove parole.
La EFFE nel cassetto
però l’ha conservata:
davvero non capisco
come gli sia avanzata.
Ma un mago è un mago. Ha detto:
cerchiamo di far presto
io metto l’iniziale
e voi mettete il resto
e quando le altre lettere
avremo radunato
ne Faremo un Futuro
Felice e Fortunato.

LAVANDERIA

9 Giu

  Miro

 

  
Ora che non c’è più niente
alla televisione
trascorro le serate
nella lavanderia a gettone
ho una passione
per l’asciugatrice
con il suo grande oblò
ci metto giacche
pantaloni e golf
bagnati, tramortiti
appiccicati
e resto lì a guardarli
rinvenire,
la danza faticosa
e poi più audace
e via via più felice
e senza peso
di corpi vuoti
sempre più leggeri,
lanciati verso l’alto,
colorati
braccia protese e gambe
avvicendate,
acrobati leggeri
e fantasiosi
di circhi immaginari
e immaginati
salti mortali, ruote
e capriole
fatte al rallentatore
resterei ore
ad osservare
penso sarei felice
anch’io
dentro l’asciugatrice
e vorrei un corpo d’aria
per danzare.
Ma arriva il click.
estraggo i miei vestiti
che vedevo leggiadri
ed ora al tatto
li sento un po’ più ruvidi
e infeltriti.
Riempio il carrello.
E’ proprio ora che torni.
Ma andando a casa
ammetto tristemente
che non dovrei lavarli
tutti i giorni.

.

7 Giu

LA PASTA CON LE SARDE

 

             finocchioselvatico        

           

Nella penombra della stanza, dalla porta, vedevo la testa e uno scorcio del profilo della nonna Anna, bianco, affilato, immobile. Il prete era venuto la mattina a darle l’estrema unzione. Non si sentivano gemiti né lamenti, neanche il rumore del respiro. Che fosse già morta? Entrai in punta di piedi e mi misi a fianco del letto. Aveva gli occhi aperti e li girava con sguardo stupito e curioso per tutta la stanza. Quando mi vide mi chiese con un fil di voce:
– Tu chi sei, Anna Maria o Giovanna?
– Anna Maria, nonna.
Mi fece un gesto con la mano battendola sul bordo del letto.
Accostai una sedia e mi sedetti accanto a lei. Le presi la mano e gliela carezzai:
– Come stai?
– Bene – sussurrò con tono ovvio, come se le avessi fatto una strana domanda.
– Oggi non hai dolori?
Sollevò il mento in segno negativo.
– Antonio dov’è? – chiese.
– E’ uscito un momento, ora torna.
Le dicevo sempre così. Antonio, mio cugino, non abitava più con noi da una decina d’anni e non si faceva vivo molto spesso. Ma questa volta lo aspettavamo davvero da un momento all’altro.
La nonna alzò le sopracciglia ammirata e mi sussurrò:
– E’un bambino bellissimo… pensa, a quattro anni parla tedesco perfettamente… ha la freulin tedesca… Lo conosci tu Antonio?
– Certo nonna, è mio cugino.
– Ma tu chi sei, la sorella di Gino?
– Sono la figlia di Gino. Gino è tuo figlio e io sono tua nipote, come Giovanna.
– Ma tu non devi studiare per domani?
– Sì, dopo vado, non ti preoccupare.
– E Liana pure è mia figlia?
– No, è mia mamma, la moglie di Gino.
– E Antonio come ti viene?
– Cugino. E’ figlio di quell’altro Antonio che era tuo figlio più grande, ti ricordi?
– E ora dov’è?
– E’ morto tanti anni fa e tu e il nonno avete tenuto con voi Antonio piccolo, che adesso è grande.
La nonna annuiva:
– Che è bello stu figghiuzzo mio, intelligente! E’ già regista così giovane… Adesso è a teatro?
– Sì, nonna.
Annuì di nuovo, soddisfatta:
– Mette in scena la Turandot. La conosci tu la Turandot?
– Come no, è una delle mie opere preferite!
Non avrebbe mai potuto metterla in scena. Sapevo che era proprio andando alla prima della Turandot, con mio nonno, a Torino, che lo zio Antonio, primogenito idolatrato, già avviato ad una brillante carriera artistica, si era preso un acquazzone tremendo e quindi la polmonite che l’aveva portato via a soli ventidue anni, già padre di un bambino di pochi mesi, che i nonni avrebbero cresciuto e chiamato sempre col nome del figlio.
           

La nonna stette un po’in silenzio di nuovo guardandosi intorno. Aveva uno sguardo furbetto, da bambina piccola, e un mezzo sorriso le increspava le labbra.
Poi i suoi occhi tornarono su di me:
– La conosci tu la pasta con le sarde?
– Non l’ho mai mangiata, ma tu ce ne hai parlato tanto. E’ buona vero?
Lei fece una mezza rotazione con la mano come a dire: altroché!
– Abbiamo sempre mangiato la pasta coi broccoli, la pasta con le acciughe e la mollica di pane…
-La pasta con le melenzane?
-Quella sì, tante volte, ma la pasta con le sarde mai. Perché non l’abbiamo mai fatta?
Sapevo benissimo perché.
-Perché qui non viene buona, perché ci vuole…
Mi fece il gesto di avvicinarmi di più e accostai l’orecchio alla sua bocca.
– Ci vuole il finocchietto selvatico, quello di montagna – mi sussurrò
– Il finocchio normale non va bene? –
– E bah! – protestò come se avessi detto un’enormità per farla arrabbiare.
– Scherzavo, dai!
– Perché qui non c’è il finocchietto selvatico, ah?
– Eh no, mi sa che non c’è – convenni.
Scosse leggermente la testa e abbassò le palpebre come a dire: vedi?
– Nonna, me lo dici come si fa la pasta con le sarde?
             

Cercavo di gustarmi quel momento incredibile. Tutto mio. La nonna era ormai per me solo un corpo sofferente, scavato da spaventosi decubiti, che ci svegliava la notte gridando e lamentandosi e tutti in famiglia, comprese noi ragazzine, ci alzavamo a turno per aiutare l’infermiera a girarla nel letto, a medicarla, a cercare di tranquillizzarla con qualche carezza.  Diceva solo cose confuse, con lo sguardo appannato e prima ancora, negli ultimi anni, la ricordavo in poltrona tutto il giorno, sempre bisognosa di assistenza e con la mente perduta in fantasie deliranti. Immaginava che la venissero a trovare una serie di personaggi. Primo fra tutti l’adorato nipote Antonio, che si presentava sempre con le sembianze di un bambino dai riccioli d’oro. Poi, negli ultimi tempi, quando sragionava ma riusciva ancora a parlare, si era aggiunta la frequentazione assidua di un certo Samuele, nome ricavato sicuramente dall’assonanza col gioielliere Fanuele, da cui molto probabilmente si era servita in gioventù, che la corteggiava portandole in dono preziosi monili. Spesso e volentieri univa i due in un unico visitatore:
“ Oggi è venuto Samuele a trovarmi” rivelava sottovoce con aria complice a chiunque le si avvicinasse “mi ha portato una collana di perle con una fibbia di brillanti… lo conosci tu Samuele? E’ un giovane bellissimo, con una testa di riccioli biondi…”
Poi le visite erano cessate, gli occhi della nonna si erano fatti vacui e velati, la sofferenza fisica l’aveva spinta in chissà quale mondo da cui ci inviava solo messaggi di dolore…
          

– Allora nonna, dicevi, ci vuole il finocchietto selvatico…
– Quello che c’è ad Altopiano… lo conosci tu Altopiano?
– Il posto dei bambini di Palermo!
       

 (Nonna, ci racconti la storia dei bambini di Palermo, nonna, ci racconti la storia dei bambini di Palermo, nonna, ci racconti la storia dei bambini di Palermo? E lei per farci mangiare raccontava di quando saremmo andati a conoscere i nostri cuginetti, che ci avrebbero portato nella casa in collina di Altopiano, coi cavalli e le caprette, e che io mi sarei fidanzata con Emanuele, che aveva la mia età, e Giovanna con Francesco, che Peppino era cicciotello e mangiava mangiava e un giorno si sentì un botto e che è successo? E’ scoppiato Peppino…e noi ridevamo ridevamo…ancora nonna! E poi eravamo andati con la nave, avevo sei anni, e noi bambini ci portavano in giro nei portabagagli di due giardinette, tutti ammucchiati, e facevamo la gara di puzze e io ed Emanuele ci eravamo fidanzati e anche dati un bacio sulle labbra, così ero tornata a casa col morbillo.)
    

 La penombra era ora più dolce e ammorbidiva i lineamenti della nonna. Le posai il dorso della mano su una una guancia e la sentii fresca e asciutta, io che la ricordavo col viso sempre un po’ sudato, che spesso evitavo di baciare…
– Allora, la pasta con le sarde?
La nonna fu pronta a riprendere il filo:
– Perciò: devi lessare il finocchietto nell’acqua per venti  minuti… l’acqua si tiene per cuocere la pasta, bada che devono essere bucatini… Poi devi prendere delle belle sarde fresche, le apri e ci levi la testa e la lisca. Fai soffriggere la cipolla a poco a poco col finocchietto tritato, la metà delle sarde…
Parlava lentamente, staccando le parole e con una vocina sottile sottile. Si fermò per riposarsi e riprese muovendo un po’ la testa come se ripassasse tra sé una lezione:
– Ci metti l’uva passolina e i pinoli… poi che ci vuole più… ah si, una o due acciughe… le metti in un piattino sopra un pentolino che bolle e le fai squagliare… poi ci manca una cosa, aspetta, il… il… il comesichiama…
– Lo zafferano! – La imbeccai trionfante. Gran parte degli ingredienti erano gli stessi della pasta coi broccoli che tante volte le avevo visto preparare. Mi guardò con approvazione ed io mi sentii fiera della mia sicilianità.
– Deve farsi tutta una crema, e poi ci condisci i bucatini.
– E poi si mangia!
Alzò il mento :
– Ci manca il più buono: ci vuole sopra il pangrattato, il resto delle sarde e le mandorle tritate e metti un poco in forno.
– E ora si mangia però! – le sorrisi.
La nonna alzò le sopracciglia, abbassò le palpebre e fece su e giù con la testa, lentamente, assumendo un’aria accorata:
– Maria Maria, che è buona! Quant’è che non la mangio! –  Poi, guardandomi di nuovo,  mi tirò un poco per la mano:
– Mi raccomando il finocchietto: ci vuole quello selvatico. Domani andiamo ad Altopiano e lo prendiamo.
– Va bene, andiamo domani.
– E così facciamo la pasta con le sarde.
– Facciamo la pasta con le sarde – confermai e le baciai la mano prima di poggiarla di nuovo sul letto assieme alla mia. Rimasi un po’ lì seduta, in silenzio, in attesa che la mamma o l’infermiera, che si erano appartate esauste per un breve riposo, tornassero a darmi il cambio. Mi sentivo stranamente appagata. La nonna aveva chiuso gli occhi e respirava tranquilla. Senza svegliarsi entrò in coma vigile e non li riaprì più. Neanche con l’adorato Antonio, neanche con mia sorella Giovanna, che, tra noi due, era stata sempre la sua cocca. Quel momento l’aveva riservato proprio a me.

 

 

 

6 Giu


monna triana

5 Giu

Grazie madeinfranca! E voi tutti ora datemi del lei:-).

La mamma. triana.

4 Giu

 

 

L’ho regalata per Natale alla mamma, quattro o cinque anni fa. Iberia, di Albeniz. Suonata da Alicia de Larrocha. Pensavo di farle una gran sorpresa, ed anche di farla a mia sorella. Ci pensavo da parecchio tempo, e già mi pregustavo il momento in cui avrei finalmente acquistato il cofanetto (è esaurito, dovrebbe uscire una nuova edizione, provi fra qualche mese), preparato il pacchetto e poi osservato la reazione della mamma, di Giovanna , e letto sui loro volti la sorpresa, i segni di una complicità ritrovata.
Non sono rimasta poi così male per l’accoglienza un po’ distratta nel caos della vigilia natalizia. La carica affettiva e di ricordi così intensa è rimasta imprigionata – non condivisa – nel cofanetto mai aperto per un paio d’anni. Poi l’ho chiesto in prestito e l’ho sistemato da me, stabilmente. Ogni tanto, non molto spesso, l’ascolto. Quasi mai l’intera suite. Programmo il lettore un po’ prima di Triana e l’aspetto arrivare, gustando con l’animo sospeso la piccola pausa prima dell’attacco.

A San Remo. Tornando verso sera. Dal Tennis Club o dai Bagni Paradiso dove ci eravamo separate dalla comitiva dandoci un appuntamento per dopo cena. Già dalla curva di Via Vallarino si cominciavano a sentire le note di Triana, così familiari ormai, che sapevano di casa. Era come se alla curva piena di gerani fossimo già a casa. Era come se la casa ci venisse incontro.
La mamma, al pianoforte, studiava Triana da anni, la provava tutte le sere mentre ci aspettava per la cena. Mentre i pomodori al riso cuocevano in forno. O mentre si scaldava la torta di verdure comprata nella città vecchia. Gli odori ci venivano incontro assieme alle note galoppanti: peperoni, basilico, profumi estivi che si fondevano, nella luce tarda dell’ora legale, coi suoni tipici dell’imbrunire:voci di bambini che si attardano negli ultimi giochi prima di rientrare per la cena, l’abbaiare lontano di un cane da qualche villa sulla collina……

Che io ricordi, in quegli anni la mamma studiava Triana solo durante la villeggiatura e solo a quell’ora; nella nostra vita in comune, l’ho sentita suonare tutti i giorni e studiare chissà quanti pezzi, ma nessuno, nella mia memoria, è più importante degli altri, nessuno ha il potere evocativo di Triana. Forse perché di quelle suggestioni andaluse ora languide come calde notti profumate, ora drammatiche come un temporale di fine agosto, niente poteva fondersi meglio col sentimento della mia adolescenza. Con lo struggimento del crepuscolo estivo, con l’emozione piena di attesa di un corteggiamento, con l’inizio di una cotta, con l’eccitazione per l’appuntamento dopo cena, con il morso di una gelosia, con la malinconia per la fine imminente dell’estate.
O forse perché noi eravamo fuori e stavamo rientrando e la mamma era già là, a casa, e saremmo salite su e ancora con l’ultimo chiarore del giorno avremmo cominciato ad apparecchiare il tavolone di legno del nonno che adesso è la mia scrivania e poi avremmo acceso la luce, avremmo acceso l’albero in ferro battuto coi mandarini luminosi che in ottant’anni non si sono mai fulminatio ew che ora tiene Giovanna nel suo soggiorno, Ci saremmo sedute a tavola e un senso di calore ci avrebbe pervaso, avremmo mangiato una odorosa torta di zucchine e profumatissimi pomodori al basilico, mentre le note di Triana, appena interrotta, avrebbero continuato per un po’ a restare sospese tra le pareti di casa, per poi uscire piano piano dalle finestre aperte sul balcone e dileguarsi nella sera tiepida.

Dedicato a Madeinfranca, che mi ha linkato in modo a dir poco principesco ed a Macramé che me l’ha segnalato